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Socialista Italiano, Partito (PSI).

Partito politico italiano. L'origine del movimento risale al 1892, con la costituzione a Genova del Partito dei Lavoratori Italiani, nato come federazione di organizzazioni socialiste, sindacalistiche (le prime camere del lavoro erano sorte due anni prima) e operaistiche (i resti corporativi del vecchio Partito Operaio, fondato nel 1882 e sciolto per volere di Depretis nel 1886). Liquidando definitivamente sia il retaggio mazziniano sia le tendenze anarchiche (che con Andrea Costa avevano un decennio prima trionfato nel Partito Socialista Rivoluzionario), il programma del partito si ispirava alla dottrina marxista, propugnando la lotta politica quale mezzo per la conquista del potere. Nel congresso del 1893, tenuto a Reggio Emilia, il partito fu ribattezzato Partito Socialista dei Lavoratori Italiani; nel 1895, al congresso di Parma, prese il nome Partito Socialista Italiano (PSI), e si diede un'organizzazione moderna sostituendo, per esempio, al principio dell'associazionismo professionale il criterio delle adesioni personali. In tal modo si venne a creare una netta distinzione tra l'azione politica, di pertinenza del partito, e quella di rivendicazione salariale, riservata alle Camere del lavoro. Principale esponente del partito, a maggioranza riformista, era Filippo Turati, convinto assertore del regime parlamentare, tramite il quale perseguire l'obiettivo dell'emancipazione delle classi lavoratrici attraverso l'introduzione di una legislazione sociale più avanzata. Nel 1898 il partito si trovò ad affrontare l'onda di reazione scatenatasi con i tragici fatti di Milano (durante i quali Bava Beccaris ordinò alle truppe regie di sparare sulla popolazione inerme che protestava per il caro-pane). Di fronte ai provvedimenti liberticidi dei Governi di fine secolo, i deputati socialisti condussero una dura opposizione parlamentare, giungendo fino all'ostruzionismo. All'inizio del nuovo secolo la politica liberale di Giolitti favorì di fatto l'espansione organizzativa del partito: se nel 1892 i deputati socialisti erano solo 5, nel 1900 erano già 33. Vittoriosa al congresso di Imola del 1902, l'ala riformista impostò una politica di sostegno al Governo giolittiano, ottenendo in cambio l'approvazione di qualcuna delle riforme sperate. All'interno del partito andavano intanto acuendosi i contrasti tra l'egemonica corrente riformista, capeggiata da Filippo Turati, Claudio Treves, Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, e l'ala rivoluzionaria di Arturo Labriola e Enrico Leone, intransigenti verso ogni forma di compromissione con il regime borghese. Al congresso di Bologna del 1904 i riformisti furono messi in minoranza e questo evento determinò un cambiamento nella linea di lotta politica del partito: i sindacalisti rivoluzionari diressero, nello stesso anno, il primo sciopero generale nazionale, ma negli anni successivi subirono un progressivo declino, fino alla loro uscita dal partito nel 1907. Nel 1908 (congresso di Firenze) la corrente riformista tornò a imporsi fino allo scoppio della questione libica: l'ala destra, capeggiata da Bonomi e Bissolati, entrò in conflitto con la linea di Turati, contrario all'impresa coloniale di Libia. Nel congresso di Reggio Emilia del 1912 il gruppo venne espulso e si affermò la sinistra intransigente rivoluzionaria, nella quale si distingueva per foga polemica Benito Mussolini. Dopo aver sostenuto con virulenza sull'“Avanti!”, giornale del partito di cui era direttore, i temi dell'antiparlamentarismo e dell'antimilitarismo, nel 1914 passò clamorosamente dalla parte degli interventisti. Malgrado la defezione mussoliniana, dopo l'ingresso dell'Italia nel conflitto il PSI mantenne la propria posizione neutralista, secondo la formula coniata da Costantino Lazzari, “non aderire né sabotare”. Le tensioni sociali del dopoguerra favorirono la crescita del PSI: se le elezioni del 1913 gli avevano assegnato 52 deputati, nel 1919 il partito conseguì il 32,3% dei voti (oltre 1.800.000 voti), portando a 156 il numero dei propri parlamentari. Nonostante il successo elettorale, proprio in quegli anni il partito fu lacerato da una serie di dissidi interni che avrebbero di lì a poco provocato una fase di vistosissimo riflusso. La maggioranza massimalista, guidata da Giacinto Menotti Serrati, che al congresso di Bologna del 1919 aveva assunto la direzione del partito, sosteneva, dopo gli eventi sovietici, la necessità della rivoluzione per instaurare la dittatura del proletariato; tuttavia, per quanto il PSI avesse aderito alla Terza Internazionale creata da Lenin (1919), al congresso di Livorno del 1921 la maggioranza massimalista rifiutò di applicare le direttive di Mosca, che imponevano di cambiare la denominazione del partito in comunista e di espellere i riformisti. Fu così che la corrente astensionista (in quanto sostenitrice dell'inutilità delle elezioni) di Amadeo Bordiga e il gruppo dell'“Ordine nuovo” di Antonio Gramsci si staccarono dal PSI, fondando il Partito Comunista Italiano. Proprio alla vigilia della “marcia su Roma” (1922), si produsse una nuova scissione: i riformisti, favorevoli alla collaborazione con i Governi borghesi, diedero vita al Partito Socialista Unitario (PSU), di lì a poco ribattezzato Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), con Giacomo Matteotti come segretario. Se nelle elezioni del 1921, avvenute prima della scissione, il PSI aveva ottenuto più di 1.600.000 voti (quasi il 26%), in quelle dell'aprile 1924, alle quali si erano presentati separati, PSI e PSU ne conquistarono complessivamente non più di 750.000. Alle misure repressive adottate dal Fascismo e all'assassinio di Matteotti, i due partiti socialisti risposero in modo del tutto inefficace, partecipando con le altre forze politiche alla secessione aventiniana, finché lo scioglimento di tutti i partiti d'opposizione nel 1926 segnò per i movimenti socialisti italiani l'inizio della clandestinità e del fuoruscitismo. Trasferita la propria organizzazione in Francia, il PSI aderì nel 1927 alla Concentrazione antifascista e nel 1930 si riunì infine con il PSLI per concertare un programma comune di lotta antifascista; fu in tale prospettiva che nel 1934 fu siglato un patto d'unità d'azione con i comunisti. Questo impegno comune si concretò nella partecipazione alla guerra civile spagnola e, soprattutto, nella lotta di Resistenza contro l'invasione nazifascista. L'alleanza tra socialisti e comunisti vacillò dopo la stipula del Patto Ribbentrop-Molotov (patto di non-aggressione tedesco-sovietico) del 1939, ma si ricompattò dopo l'attacco tedesco all'Unione Sovietica (1941). Il PSI si ricostituì clandestinamente in Italia nel 1942, a opera di Oreste Lizzadri e Giuseppe Romita; l'anno dopo il partito assunse il nome di Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP), che univa il PSI e il MUP (Movimento di Unità Proletaria), fondato nello stesso anno da Lelio Basso. Caduto il Fascismo, il partito (con Pietro Nenni come segretario generale) fu presente nel CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), e fece parte, con l'eccezione del secondo Governo Bonomi (1944-49), dei Governi di unità nazionale che avviarono la ricostruzione del Paese. Nelle elezioni del 1946 per l'Assemblea costituente il PSIUP ottenne il 20,7% dei voti a fronte del 19% conquistato dal Partito Comunista. Ma l'inizio della “guerra fredda” tra Stati Uniti e Unione Sovietica (1947), sollevò la problematicità dei rapporti con il PCI: la componente di sinistra, guidata da Nenni e Basso, era favorevole al rafforzamento organico del patto d'azione con i comunisti, o addirittura a una vera e propria fusione, mentre l'ala riformista socialdemocratica (guidata da Giuseppe Saragat) si manteneva su posizioni filoccidentali. Il congresso di Roma del 1947 sancì la scissione della destra socialdemocratica, che diede vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Nello stesso anno il PSIUP riprese la denominazione di PSI e accolse al suo interno la maggioranza del disciolto Partito d'Azione. La politica filocomunista intrapresa dal PSI causò un'ulteriore scissione: dopo il congresso di Firenze del 1949 la corrente di destra facente capo a Romita si costituì in Partito Socialista Unitario (PSU), per poi congiungersi nel 1951 con il partito di Saragat, dando luogo al Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI). Attestatosi sul piano elettorale intorno al 4,5%, il PSDI avrebbe partecipato quasi ininterrottamente alle coalizioni centriste affermatesi in Italia negli anni Cinquanta. Alle elezioni del 1948 il PSI e il PCI si presentarono con una lista unica di candidati, sotto la denominazione di Fronte Democratico Popolare, ottenendo il 31% dei voti, e continuarono poi la loro politica unitaria nei sindacati e nelle amministrazioni locali. Nelle successive elezioni del 1953 e del 1958 il PSI conseguì, rispettivamente, il 12,7 e il 14,2% dei voti. Grossi eventi internazionali, quali la destalinizzazione operata dal XX congresso del PCUS e l'invasione sovietica dell'Ungheria (1956) portarono al distacco dal PCI e a un riavvicinamento al PSDI. Primo atto concreto del nuovo corso del PSI fu l'astensione nei confronti dei Governi Fanfani (1960 e 1963) e Leone (1963). Si stava così inaugurando l'esperienza governativa del centro-sinistra, che sarebbe giunta a piena maturazione con l'ingresso dei socialisti nel Governo presieduto da Aldo Moro (1963-64). Dopo la scissione della sinistra del PSI, che riprese la sigla del PSIUP, il processo di avvicinamento tra PSI e PSDI culminò, nel 1966, con la riunificazione tra il PSI e il PSDI sotto la denominazione di Partito Socialista Unificato (PSU). Tre anni dopo l'esperienza era però già conclusa, anche in seguito ai deludenti risultati elettorali del 1968 (14,5% rispetto al 13,8 del PSI e al 6,1 del PSDI nel 1963). Proseguì invece l'intesa di centro-sinistra (Governo Colombo, 1970-72), entro la quale il PSI cercò di mantenere viva l'istanza delle riforme, dallo Statuto dei lavoratori all'istituzione delle regioni; fu tra l'altro al centro dello schieramento laico che per la prima volta introdusse in Italia il divorzio (1970). Tuttavia l'aggravarsi della crisi economica e sociale portò il PSI a un cauto riavvicinamento al PCI, almeno fino a quando il mutato quadro politico (la crescente polarizzazione fra DC e PCI, la linea del “compromesso storico” perseguita da quest'ultimo), nonché il calo di consenso elettorale registrato nel 1972 e nel 1976, non suggerì al nuovo gruppo dirigente del partito (guidato da Bettino Craxi, eletto segretario nel 1976) di avviare una politica basata sulla prospettiva dell'“alternanza”, per cui alla guida del Paese si sarebbero alternate in modo non traumatico forze politiche diverse ma non antitetiche, garantendo così la continuità delle istituzioni. In questa prospettiva fu ulteriormente affermata l'autonomia del partito anche rispetto al PCI, con una chiara scelta di campo ideologica filoccidentale. L'accresciuta importanza politica acquistata dal PSI a dispetto del suo peso elettorale relativamente modesto ne determinò il rientro tra le forze di Governo (Gabinetti Cossiga e Forlani) dopo sei anni di opposizione. Dal 1983 al 1987 Craxi guidò il primo esecutivo a presidenza socialista nella storia d'Italia. Sul piano elettorale il PSI registrò un avanzamento nel consenso popolare, passando dal 9,8% nelle consultazioni politiche del 1979, all'11,4% nel 1983 e al 14,3% nel 1987. Al sempre maggior potere detenuto da esponenti socialisti a livello sia nazionale sia locale si accompagnava intanto un crescente coinvolgimento nel processo degenerativo del sistema dei partiti che avrebbe condotto, nei primi anni Novanta, all'esplosione di Tangentopoli. Travolto da scandali e inchieste giudiziarie che portarono all'incriminazione di numerosi esponenti del partito e dello stesso segretario Craxi, il PSI, che ancora nel 1992 aveva ottenuto il 13% dei voti nelle elezioni politiche e la presidenza del Consiglio con Giuliano Amato, subì un processo di sgretolamento sancito dal crollo elettorale nelle elezioni politiche del marzo 1994 (2,2% dei voti). Nel novembre dello stesso anno, in seguito alla scissione del gruppo capeggiato da Valdo Spini, costituitosi come Federazione Laburista, il PSI venne ufficialmente sciolto dopo 102 anni di vita. Al suo posto, nel 1998, nacque la formazione politica denominata Socialisti Democratici Italiani (SDI), guidata da Enrico Boselli. Nel gennaio 2001, un anno dopo la morte di Bettino Craxi, nacque il Nuovo Partito Socialista, presieduto da Gianni De Michelis e Bobo Craxi, figlio di Bettino. Unitosi ai partiti vicini a Forza Italia per formare la Casa delle Libertà, alle elezioni politiche del 2001 ottenne al proporzionale per la Camera lo 0,9% dei consensi. Durante il V Congresso nazionale del partito (ottobre 2005), Bobo Craxi presentò una mozione alternativa a quella del segretario De Michelis, ricercando un'alleanza a sinistra. De Michelis abbandonò l'aula lasciando i soli delegati della mozione opposta ad acclamare Craxi come nuovo segretario. Ma nel gennaio 2006 il Congresso venne dichiarato legalmente mai svolto e fu riconosciuto De Michelis segretario del Nuovo PSI, che alle elezioni politiche del 9 aprile si alleò con Democrazia Cristiana, a sostegno della CdL, ottenendo lo 0,6% dei voti al Senato e lo 0,7% dei voti alla Camera. Nel febbraio 2006 Craxi fondò I Socialisti, formazione che aderì all'Unione e alle politiche del 9 aprile ebbe lo 0,4% dei consensi al Senato e lo 0,3% alla Camera.
Bettino Craxi